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La settimana scorsa il Consiglio Superiore della Magistratura all’unanimità ha nominato presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano. I mezzi di comunicazione hanno dato ampio risalto alla notizia, sottolineando come sia la prima volta di una donna in questo ruolo apicale. Ma la stessa presidente Cassano qualche anno fa aveva affermato come “l’effettiva parità sarà stata raggiunta quando cesserà di fare notizia la nomina di una donna in una posizione di vertice”. Un obiettivo, purtroppo, evidentemente ancora lontano.
Sicuramente tale nomina rappresenta un fondamentale passo in avanti in quel lungo percorso, iniziato sessant’anni fa, con l’ingresso delle prime donne in magistratura.
“Risale al 1963, infatti – spiega la coordinatrice Donne delle ACLI di Vicenza aps, Elisabetta Zanon – una norma che sancisce l’accesso femminile a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera”.
Con una norma del 1919 le donne erano state ammesse, a pari titolo degli uomini, all’esercizio delle libere professioni e di tutti gli impieghi pubblici ad eccezione di quelli che implicavano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politici o che attenevano alla difesa militare dello Stato.
“Molta strada è stata fatto. Al 30 giugno 2022 le donne in magistratura erano 4952 (55% del totale). In altri ambiti, anche privati, la situazione è simile. Le donne – prosegue la coordinatrice Zanon – sono oggi presenti in alte percentuali in quasi tutti i settori lavorativi ed il tasso di occupazione femminile in Italia nel 2021 (dati Ocse) ha raggiunto il 50% e sono in continua crescita le professionalità qualificate: gli ultimi dati forniti dagli Ordini professionali fanno registrare rilevanti incrementi delle iscritte”.
Da un recente studio dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere emerge che la maggioranza delle donne rimane ai margini della carriera, senza riuscire ad occupare posizioni dirigenziali e apicali. In Italia, ad esempio, prescindere dal settore economico di riferimento, solamente il 13,4% dei Ceo delle maggiori società quotate è donna, a fronte dell’86,6% maschile.
“Tale limite è dovuto ad un insieme di fattori – prosegue la coordinatrice Zanon – che frenano il progredire nelle carriere femminili. Si passa dagli ostacoli di natura culturale come le discriminazioni di genere, la scarsa valorizzazione del merito, la maternità e il lavoro di cura familiare intesi come limite, a quelli di natura strutturale come le carenze di misure e servizi per conciliare i tempi di vita e lavoro e la poca flessibilità organizzativa”.
I molteplici citati intralci condizionano in maniera massiccia anche il livello di stipendi e guadagni delle donne.
“È sempre più di attualità il tema del doloroso divario retributivo di genere. Basti pensare – conclude la coordinatrice Zanon – che le donne dirigenti d’azienda guadagnano in media il 30% in meno rispetto ai loro compagni di lavoro e le avvocatesse addirittura meno della metà dei loro colleghi uomini.
Le azioni legislative intraprese dall’Italia per la parità, l’equità di genere e l’inclusione contro ogni forma di discriminazione, anche sotto la spinta europea, sono state molteplici in questi anni. Per una maggiore e migliore occupazione e realizzazione femminile si auspica il potenziamento di tali misure ed il varo di sempre più consistenti interventi che portino ad una possibile e reale conciliazione tra vita lavorativa, privata e familiare ed al necessario smantellamento del pesante stereotipo di genere secondo il quale il lavoro di cura, l’educazione dei figli e l’assistenza ai genitori anziani è sempre e solo una cosa da donne”.

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